di Paolo Bonacini, giornalista
Tiene banco in questi giorni la delicata vicenda che coinvolge la Procura di Reggio Emilia e il suo Procuratore capo, Marco Mescolini. Sul sito del Consiglio Superiore della Magistratura si può leggere la relazione della Prima Commissione, a firma Nino Di Matteo, che si conclude con la proposta di trasferimento d’ufficio di Mescolini “per incompatibilità con ogni funzione giudiziaria nel distretto di Bologna”. Proposta che verrà discussa in seduta plenaria, alla presenza dello stesso Procuratore, il 24 febbraio alle ore 15,30. Se il Plenum del CSM accoglierà le indicazioni della Commissione, Mescolini andrà a fare il suo mestiere fuori dall’Emilia Romagna. Tutti i giornali ne parlano, riportando frasi e stralci della relazione che ripercorre una storia iniziata poco meno di un anno fa, quando a Reggio Emilia si apprese che tra le intercettazioni telefoniche di Luca Palamara, ex componente del CSM messo sotto indagine per corruzione, figuravano anche alcune conversazioni con Mescolini risalenti al 2018. Ai mesi in cui il CSM doveva decidere l’assegnazione del posto di Procuratore a Reggio Emilia, mentre ancora l’aula bunker del tribunale reggiano era aperta e Mescolini svolgeva le funzioni di Pubblico Ministero, assieme a Beatrice Ronchi, nel processo di mafia Aemilia.
Cosa è successo tra il maggio 2020 ed oggi lo ricostruisce per il CSM la relazione della Commissione, partendo dagli esposti che hanno dato il via alla procedura. Un’altra ricostruzione, giornalistica e non giudiziaria, l’ha fatta nei giorni scorsi il direttore del TG di Telereggio Gabriele Franzini, in una serie di servizi andati in onda. Sono molto diverse queste due ricostruzioni, ma entrambe rendono conto degli sviluppi imprevedibili benchè concatenati della vicenda. Come in una sorta di “effetto farfalla”, il fenomeno illustrato dal meteorologo Edward Lorenz per cui “un battito d’ali in Brasile può provocare un tornado in Texas”, esse ci illustrano come alcune telefonate del 2018, che hanno per oggetto gli anomali ritardi a Roma nella nomina di competenza del CSM, possano portare in pochi mesi all’umiliazione a Reggio Emilia del magistrato che ha fornito un contributo decisivo alla sconfitta della potente ‘ndrangheta emiliana.
È stata sufficiente la divulgazione dei contenuti di quelle telefonate private (intercettato col trojan e sotto indagine era Palamara, non Mescolini) per spingere diversi esponenti politici del Centro Destra, anche parlamentari, a chiedere le dimissioni del Procuratore di Reggio e a mettere in discussione la sua correttezza nella conduzione dell’indagine Aemilia. Sono state sufficienti queste esternazioni, ampiamente riportate dai giornali locali, per spingere alcune Sostitute Procuratrici del Palazzo di Giustizia reggiano a rileggere in chiave critica e colpevolista decisioni e comportamenti del Procuratore relativi ai primi due anni del suo mandato. A far loro ritenere compromessa la serenità e l’autonomia del proprio lavoro, tanto da presentare un esposto al CSM. È stato sufficiente l’avvio di questo iter e la diffusione della notizia, a portare nuovamente gli stessi personaggi politici del Centro Destra nei salotti televisivi e sulle pagine di quotidiani locali e nazionali, per rincarare la loro dose di accuse al Pubblico Ministero di Aemilia e ai suoi presunti favoritismi verso il PD. Da questa catena di cause/effetti prende spunto infine la Prima Commissione del CSM, al termine del proprio lavoro istruttorio, per motivare la proposta di trasferimento: “I fatti descritti hanno inevitabilmente generato un serio appannamento della figura del magistrato la cui credibilità, in un ambiente piccolo come quello reggiano, è stata fortemente deteriorata”. Torna alla mente la celebre battuta del comico televisivo Giorgio Faletti: “Il paese è piccolo, la gente mormora”.
Se il provvedimento amministrativo del CSM ci sarà; se Mescolini verrà trasferito altrove, il piccolo paese di Reggio Emilia potrà tornare alla tranquillità precedente al settembre 2018, con una Procura senza un Procuratore, in attesa di una nuova nomina. E soprattutto alla tranquillità precedente al gennaio 2015, quando l’Emilia era libera dalle mafie perché nessuno le vedeva, a parte il Prefetto della provincia e la DDA di Bologna.
Alcune cose è bene comunque sottolinearle, perché Mescolini non è Joseph K. e la realtà dei fatti accaduti è cosa diversa dalle immaginarie sventure giudiziarie del protagonista del Processo di Kafka.
Primo: riguardo alle intercettazioni di Palamara, molte delle telefonate registrate hanno portato all’apertura di provvedimenti disciplinari, da parte del CSM, nei confronti di altrettanti magistrati, dei quali erano stati evidentemente riscontrati comportamenti deontologicamente non corretti. Non è questo il caso di Mescolini. Il procedimento che lo riguarda è di natura amministrativa: un trasferimento previsto quando i magistrati “per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”. Cause indipendenti da loro colpa, dice la norma, e se le parole hanno un senso non è per “colpa” che Mescolini verrebbe eventualmente trasferito.
Secondo: il principale accusatore del Procuratore di Reggio, che nelle proprie dichiarazioni pubbliche sottolinea invece sempre presunte “colpe politiche” di Mescolini, è l’esponente di Forza Italia a Parma Giovanni Paolo Bernini, indagato in Aemilia. Ricorda Franzini nei citati articoli: “Nel 2016 il Gup di Bologna Francesca Zavaglia giudicò provato un versamento di denaro da parte di Bernini allo ‘ndranghetista Romolo Villirillo in cambio del suo sostegno nella campagna elettorale del 2007. Ma il reato fu dichiarato estinto per prescrizione. Nel maggio 2019, alla vigilia delle Europee, la Commissione parlamentare antimafia indicò Bernini tra i candidati impresentabili, in seguito alla condanna per corruzione emessa nel marzo dello stesso anno dalla Corte d’Appello di Bologna per una mazzetta incassata su un appalto comunale”. Quando Bernini tenne la sua conferenza stampa a Reggio Emilia in piazza Martiri del 7 luglio, il 21 agosto 2020, per chiedere assieme all’esponente reggiano di Fratelli d’Italia Marco Eboli le dimissioni di Mescolini, ripeté più volte di “non avere mai avuto niente a che fare con la Giustizia”. Io ero presente e gli ricordai quella condanna per corruzione, al che Bernini rispose: “Sì, certo, e quello è un altro esempio di malagiustizia e di un altro Procuratore che non fa bene il suo lavoro”.
Terzo: sempre Giovanni Paolo Bernini, di recente ospite anche di Nicola Porro nel programma televisivo Quarta Repubblica, su Rete 4, cita spesso sé stesso a sostegno delle proprie tesi, riferendosi al libro da lui scritto “Storie di ordinaria ingiustizia”. Un capitolo del libro è dedicato alla nomina di Marco Mescolini decisa in Plenum dal CSM il 4 luglio 2018. Erano rimasti in ballo due nomi: quello di Mescolini e quello del Procuratore aggiunto di Napoli Alfonso D’Avino (poi nominato Procuratore a Parma). È il casus belli da cui parte tutto, perché le intercettazioni che scatenano le polemiche riguardano quella nomina, e le stesse conclusioni della Prima Commissione rese note oggi sostengono: “Da tali conversazioni è emerso chiaramente come la nomina del dott. Mescolini sia stata sponsorizzata al fine di far crescere il comune gruppo associativo nel distretto di Bologna”. Bernini va oltre e sostiene nel libro che a Reggio doveva venire D’Avino e che la scelta di Mescolini è stato il premio del CSM al magistrato che aveva tenuto il PD al riparo dall’inchiesta Aemilia. Cita a tal proposito stralci di un articolo pubblicato dal Fattoquotidiano.it il 5 settembre 2018, nel quale vengono ricostruite le tappe delle varie sedute del CSM che hanno portato alla nomina dei due Procuratori. Poiché quell’articolo l’ho scritto io, posso dire con certezza che Bernini omette passaggi fondamentali, per costruire una tesi che è l’esatto contrario di quanto risulta dagli atti. Non è vero che a Reggio Emilia doveva venire D’Avino, perché l’apposita Commissione nel 2017 si era pronunciata 5 a 1 per Mescolini. E non è vero soprattutto che il CSM riteneva un magistrato più bravo dell’altro. Ci furono pronunciamenti di apprezzamento per entrambi, ma Bernini censura nel libro quelli a favore di Mescolini. Ad esempio la frase pronunciata nel Plenum del 14 febbraio 2018 da Luca Forteleoni, appartenente alla corrente di “Magistratura Indipendente”, relatore di minoranza e sostenitore di D’Avino per la poltrona reggiana: “Stiamo parlando di due magistrati che danno entrambi la vita per il loro lavoro”. Questo per dire che almeno il confronto in CSM non fu una battaglia di tifosi da stadio né una trattativa di bassa lega tra correnti.
Quarto e ultimo: l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, e ancor più a quella di matrice mafiosa, è frutto di un lavoro collettivo che investe decine e centinaia di magistrati, uomini delle forze di Polizia, delle Istituzioni, delle professioni e della società civile nelle sue espressioni organizzate. Che passa al vaglio di numerosi Collegi Giudicanti deputati ad emettere le sentenze (cinque fino ad oggi, esclusi gli stralci, per il solo processo Aemilia). Ipotizzare che una sola diabolica mente possa orientare a proprio piacere le indagini e di conseguenza le sentenze, a favore o a danno di questo o di quel partito, o persona, è irrealistico e offensivo nei confronti della pluralità di voci che mettono a disposizione le proprie competenze per il fine comune. Le sentenze di Aemilia mai sottolineano anomalie nelle indagini e quando indicano l’emersione al processo di tante ipotesi di reati ancora da approfondire, mai mettono in discussione il rigore giudiziario e l’onestà intellettuale dell’operato della DDA. Del resto in una intervista rilasciata il primo settembre 2020 al giornale Il Riformista, quotidiano tra i più accanito oppositori di Mescolini, diceva l’ex Procuratore di Bologna Roberto Alfonso, ora Procuratore Generale a Milano: “Fui io, e nessun altro, a creare e coordinare l’indagine Aemilia”. Se ne deduce che se Mescolini fosse colpevole di avere insabbiato prove contro questo o quel partito o persona, Alfonso sarebbe il suo mandante.
La storia ci insegna che i magistrati, i prefetti, gli uomini delle forze dell’ordine, i dirigenti di organizzazioni e istituzioni che con più forza e risultati hanno combattuto le mafie, sono anche quelli che hanno trovato più nemici e ostacoli sul loro percorso. Che hanno dovuto affrontare campagne diffamatorie e attacchi personali spesso in solitudine. Che hanno pagato con il loro rigore per le debolezze e per i cedimenti altrui.
Potrebbe essere l’amara verità anche di questa storia.
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