di Paolo Bonacini, giornalista
Nel 1975 “Era già tutto previsto”, per Riccardo Cocciante, in materia di sofferenze d’amore. 45 anni dopo l’avvocato Francesco Laratta rispolvera il titolo della vecchia canzone e cita Cocciante per dire che anche a Reggio Emilia “era già tutto previsto” quando il giudice Francesco Maria Caruso lesse in aula nell’ottobre 2018 la sentenza di primo grado di Aemilia.
La “sentenza Caruso”, la chiama l’avvocato, che lancia un attacco diretto, sfumato nel linguaggio, durissimo nella sostanza, al Presidente del collegio giudicante. Identificato come il principale artefice di una “sentenza già scritta”, di un processo “unidirezionale”, di “eccessi froidiani” nell’accettare per buono tutto quanto propinato dai collaboratori di giustizia in aula. L’attacco poi si estende a tutta la Corte di primo grado (Andrea Rat e Cristina Beretti oltre a Caruso) quando Laratta si chiede come sia possibile accettare l’ipotesi di presunti reati commessi a processo in corso dagli imputati in carcere in regime di 41bis (isolamento), ed aprire di conseguenza un nuovo rito abbreviato: “Un conto sono le chiacchiere di quattro amici al bar…”, dice, “un conto sono le decisioni di chi indossa la toga”.
Attaccare la sentenza e chi l’ha emessa è abbastanza logico per chi difende un imputato (si tratta di Michele Bolognino, assistito anche dall’avv. Carmen Pisanello) che in primo grado ha rimediato una delle pene più pesanti (38 anni tra ordinario e abbreviato) e per il quale il sostituto procuratore generale Lucia Musti ha già chiesto in Appello la conferma della condanna ridotta a 28 anni per la riunificazione dei reati.
Ma arrivare a chiedersi, come ha fatto Laratta nell’udienza del 6 ottobre alla Dozza, se i giudici di Reggio fossero “competenti” a trattare la materia, ed attaccare così esplicitamente il presidente Caruso, è il segno che la battaglia contro Aemilia e contro le verità storiche sviscerate dalle indagini e dal processo non è per nulla terminata. Una battaglia che riecheggia di connotati anche politici, quando l’avv. Laratta sostiene che il teorema da sostenere e dimostrare era la capacità di questa regione, l’Emilia Romagna, di essere in grado di sconfiggere le presunte infiltrazioni mafiose nel proprio territorio.
Che l’Emilia Romagna vada stretta politicamente all’avv. Laratta è abbastanza comprensibile, ricordando cosa disse in aula a Reggio Emilia il 10 luglio 2018, iniziando la propria arringa nel primo grado di giudizio: “Io sono studioso e amante del periodo storico che va dal 1922 al 1945”. Tradotto: io sono studioso e amante del fascismo. “Il processo Aemilia è come il processo di Norimberga” disse ancora quel giorno Laratta, che paragonò il suo Michele Bolognino al criminale di guerra Hermann Göring, capo dell’aviazione militare Luftwaffe. Forse pensando di fargli un complimento.
L’avvocato Laratta nel suo intervento (concluso con la richiesta di assoluzione per Bolognino) ha però sviluppato un ragionamento che entra anche nel merito di uno dei temi più delicati e controversi del processo: la presunta autonomia della cosca emiliana. Lo ha fatto liquidando i collaboratori di giustizia senza appello: “Hanno raccontato un sacco di fesserie”, oppure: “Si sono informati su Wikipedia o leggendo i libri di Gratteri sulla ‘ndrangheta”. Ma lo ha fatto anche riproponendo con particolare efficacia ragioni già trattate da altri avvocati difensori e riassumibili nel tema della “competenza territoriale” sui reati oggetto del processo. Lo fa prendendo spunto dal “grado criminale” del suo assistito, Michele Bolognino e sostenendo, abbastanza a sorpresa, che “Bolognino non è innocente; Bolognino è estraneo”.
Nello spiegare la frase attacca ancora i giudici di Reggio Emilia per i quali, come scritto nella sentenza, “gli avvocati difensori hanno sviluppato posizioni dirette a sostenere senza eccezione che l’associazione di ‘ndrangheta emiliana riconducibile a Grande Aracri non esiste”. Non è vero, dice Laratta: “Io sono l’eccezione. Esiste, ma semplicemente Bolognino non ne faceva parte perché lui stava con la famiglia dei Megna. Esiste ma non è autonoma, perché proviene da Cutro, tanto che la città di Reggio Emilia a quel paese ha dedicato nel 2009 anche una importante strada all’ingresso della città”. Si riferisce a Viale città di Cutro, che accoglie i visitatori a pochi metri dagli archi di Calatrava all’ingresso nord della città. “Esiste ma non ha mai reciso il rapporto con il paese d’origine”. Esiste ma “non ha quella struttura orizzontale (definita da Laratta “una castroneria”) disegnata da Antonio Valerio”, perché resta la “mafia piramidale ai cui vertici c’è il solo Nicolino Grande Aracri”, il capo assoluto, l’uomo che da Cutro non si è mai spostato se non per andare in galera. L’uomo, dice ancora l’avvocato, al quale va ricondotta “La programmazione, l’ideazione e la direzione” di tutte le attività della cosca, comprese quelle in Emilia Romagna. Le due affermazioni assieme (Bolognino non è innocente ma estraneo alla cosca Grande Aracri, la cosca Grande Aracri è calabrese e non emiliana) mirano a sostenere un semplice concetto condiviso dagli avvocati difensori del processo: “Non può essere giudicato a Reggio Emilia o a Bologna chi eventualmente ha commesso reati mafiosi riconducibili ad altre organizzazioni o ad altri territori.
Sul tema della appartenenza di Bolognino (ai Megna, ai Grande Aracri, a entrambe le cosche o a nessuna?) si registra anche l’ultimo affondo dell’avv. Laratta contro il presidente della Corte di primo grado Francesco Maria Caruso. Laratta ricorda l’interrogatorio di Nicolino Grande Aracri, in una delle udienze più significative del primo grado. Il 4 luglio 2017, in maglietta rossa dalle maniche corte, il boss rispose in video conferenza alle domande del suo avvocato Carmen Pisanello che gli chiese: “Senta, è possibile appartenere contemporaneamente a due diverse associazioni mafiose?”
La risposta fu secca e sicura: “No, assolutamente”
A quel punto intervenne il presidente Francesco Maria Caruso che si insinuò nei paradossi di tale affermazione. Vale la pena ricordare lo scambio di battute:
CARUSO: “Mi scusi, ma la cosca Grande Aracri esiste?”
GRANDE ARACRI: “Esiste perché l’avete inventata voi giudici con i processi”
CARUSO: “Lasciamo stare i processi. Io le chiedo: nella realtà, la cosca Grande Aracri esiste, è mai esistita?”
GRANDE ARACRI: “No, non esiste”
CARUSO: “Ma se non esiste, come fa lei a dire che si appartiene all’una o all’altra? Come si fa ad appartenere ad una cosa che non esiste?”
Questa domanda secondo Laratta “Le supera tutte, è di parte” e rende evidente “in modo smaccato e palese la conduzione unidirezionale del processo”.
A nostro modesto parere è semplicemente una domanda perfetta per evidenziare il cortocircuito concettuale di chi nega l’esistenza di una organizzazione tradendo però l’orgoglio di esserne il capo”.
Per il resto l’udienza del 6 ottobre ha offerto anche spunti di naturale umanità, soprattutto per le tante dichiarazioni spontanee rese da detenuti in carcere collegati in videoconferenza. Piange Giuseppe Iaquinta nel ricordare la moglie scomparsa e nel sostenere che conosceva sì tanti imputati, ma solo perché erano originari dello stesso paese, non perché facevano affari loschi assieme. Si lamenta Sergio Bolognino, che per ogni udienza è sottoposto a lunghi trasferimenti che durano ore perché nel carcere di Nuoro dove si trova non c’è possibilità di videoconferenza. È lucido come sempre Francesco Amato che chiede due cose alla Corte bolognese dei giudici Pederiali, Passarini e Silvestrini: un’arma a titolo personale per uso difensivo in carcere, e una sollecitazione al sostituto procuratore Musti perché vada a ritirare la sua pensione in Posta.
Di naturale umanità è anche la discussione che si accende in aula al momento in cui prende la parola l’avv. Francesco Laratta. Il procuratore Lucia Musti chiede che parli con la mascherina sul viso, come fanno tutti nel rispetto delle norme di contrasto al coronavirus. L’avvocato Laratta chiede di parlare senza mascherina stando lontano cinque metri dalle altre persone presenti in aula. Entrambi espongono buone ragioni a sostegno delle proprie richieste, come si conviene a chi è abituato a dibattere in aula. Il giudice Alberto Pederiali e il collegio cercano una mediazione difficile e alfine la loro decisione è salomonica: chiudere un occhio e forse anche due su Laratta che parla sì con la mascherina indossata, ma abbassata ben sotto al naso.
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