di Paolo Bonacini, giornalista
Era dal 28 febbraio che le parti del processo di mafia per gli omicidi del 1992 non si ritrovavano in Corte d’Assise a Reggio Emilia, causa la sospensione forzata per l’emergenza sanitaria. Lo scenario venerdì 15 maggio è leggermente modificato rispetto a 75 giorni prima: tutti indossano le mascherine sanitarie e su molte poltrone sono incollati adesivi informativi che vietano di sedersi. Ma rispettare il distanziamento sociale in questa grande aula è abbastanza semplice per la ventina di persone che partecipano all’udienza e il merito prende presto il sopravvento. E’ il presidente della giuria Dario De Luca, nell’aprire la seduta, ad informare del deposito di una istanza di ricusazione presentata dagli avvocati Viscomi e Giunchedi, legali dell’imputato numero uno, Nicolino Grande Aracri, nei confronti dei due giudici togati della Corte d’Assise: lo stesso presidente De Luca e il giudice a latere Silvia Guareschi. Il motivo è legato alla richiesta presentata in aprile da Grande Aracri per ottenere gli arresti domiciliari alternativi al carcere. Motivo: rischio coronavirus. Quella istanza è stata rigettata dal presidente del Tribunale di Reggio Cristina Beretti e dagli stessi giudici della Corte d’Assise, sottolineando tra gli altri motivi che nel carcere di Opera, dove attualmente Grande Aracri si trova all’età di 61 anni in regime di isolamento come previsto dal 41 bis, e dove non risultano casi di Covid 19, i rischi di contagio sono certamente minori che a Cutro in contrada Scarazze. Ma Grande Aracri rilancia e i suoi legali sostengono che la sentenza sul covid giustifica la ricusazione per “indebita anticipazione”. In sostanza, facendo riferimento a quanto previsto dall’art. 37 del codice di procedura penale, gli avvocati di Nicolino mano di gomma ritengono che i giudici abbiano espresso, prima della legittima sentenza al processo in corso, considerazioni di merito che non potevano pronunciare. Vicenda simile si era verificata anche alla prima udienza di Bologna nell’appello del processo Aemilia, quando era stato l’imputato Pasquale Brescia a ricusare il giudice Giuditta Silvestrini. Coincidenza vuole che anche in quel caso a presentare l’istanza sia stato l’avvocato Gregorio Viscomi. La richiesta fu respinta. L’esistenza o meno di questa sorta di “conflitto di interessi” sarà ora valutata dalla Corte d’Appello di Bologna, ma intanto il processo reggiano va avanti e mette in archivio altre sette ore di requisitoria del sostituto procuratore Beatrice Ronchi. Tutte dedicate, in questo venerdì di udienza, a tratteggiare l’attendibilità e il valore delle dichiarazioni rese da Antonio Valerio. Che sarebbe insufficiente definire “un” collaboratore di giustizia, esordisce il PM, perché Valerio è “il” collaboratore di giustizia. Figura centrale dal 2017 del processo Aemilia, nel corso del quale ha fornito elementi decisivi e riscontrati che hanno portato all’apertura dell’attuale dibattimento in Corte d’Assise. Una figura così credibile, dice la dott.ssa Ronchi, da spingere i giudici del primo grado di Aemilia a utilizzare alcune sue frasi come incipit delle 10mila pagine che raggruppano le motivazioni della sentenza. Frasi che ormai conosciamo a memoria, ma che scolpiscono nella storia le conclusioni di Valerio dopo infinite narrazioni di dettagli, nomi, storie, conflitti e affari di ‘ndrangheta, che hanno caratterizzato gli ultimi 35 anni di vita nei nostri territori del nord e in quelli della casa madre al sud: “La ‘ndrangheta qui a Reggio Emilia è: autonoma, evoluta, tecnologica. Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo: mafiosi e ‘ndranghetisti, maledettamente organizzati! Signor Presidente, a Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso, sotto uno stato di assedio e assoggettamento ‘ndranghetistico che non ha eguali nella storia reggiana. Nemmeno i terroristi erano arrivati a tanto. La ‘ndrangheta ha impresso, marchiato a fuoco con il sangue, chi doveva comandare a Reggio Emilia. E poi ha fatto scendere il silenzio tombale, come sa fare molto bene la ‘ndrangheta…”.
Almeno un’altra udienza occuperà la requisitoria di Beatrice Ronchi e al suo termine conosceremo le richieste della pubblica accusa per i quattro imputati di omicidio volontario e di mafia che sono alla sbarra in questo processo: Nicolino Grande Aracri, Angelo Greco, Antonio Lerose e Antonio Ciampà. Intanto la macchina processuale si è rimessa in moto anche a Bologna, dove all’udienza preliminare del processo Grimilde sono state depositate le memorie dei soggetti che intendono costituirsi parte civile. Ci sono i tre sindacati regionali, CGIL CISL e UIL, e per la CGIL si presentano anche le due Camere del Lavoro di Reggio e Piacenza. Gli avvocati Ronchi, Gaddari e Mancuso, qui come in Aemilia ricordano che “La CGIL, quale presupposto alla sua stessa ragion d’essere, si impegna fattivamente per contribuire ad un contesto politico ed economico imperniato sui valori della legalità costituzionale, unico terreno sul quale poter intervenire con la propria azione a tutela dei diritti dei lavoratori. Per tale ragione il contrasto con ogni mezzo alle associazioni mafiose, strutture incompatibili con i paradigmi della legalità costituzionale, diviene dichiarazione preliminare alle ragioni stesse dell’agire sindacale”.
Il terzo processo che ha ripreso a marciare, seppure ancora con qualche problema di carburazione, è l’appello di Aemilia, che si svolge sempre presso il carcere della Dozza di Bologna. Giovedì 14 maggio davanti all’ingresso è stato un via vai di avvocati che entravano ed uscivano, per mantenere all’interno dell’aula l’ambiente protetto delle “non più di 50 persone” necessario per scongiurare focolai di virus. Se non si tornerà in fretta all’agibilità piena della sala, crediamo sarà difficile garantire in futuro il proseguo delle udienze nell’emergenza, tenuto conto che 50 posti per gli avvocati di 144 imputati e delle tante parti civili presenti al processo sono oggettivamente molto pochi. Non è detto che la buona volontà e la collaborazione bastino a risolvere il problema, ma intanto una prima vittima c’è già: i giornalisti. Che non sono potuti entrare, e non possono raccontare cosa si è discusso e deciso nell’udienza. Nel merito si sono già espresse, chiedendo soluzioni a garanzia del diritto all’informazione, l’Ordine e l’Aser, il Sindacato regionale dei giornalisti, oltre alla FNSI, la federazione nazionale della stampa. Che dicono: “L’Appello di Aemilia diventa a porte chiuse per l’informazione. I giornalisti hanno preso atto dell’impossibilità di entrare in aula, ma crediamo che questa esclusione della stampa debba restare un unicum nella storia processuale di Aemilia. Si tratta, lo ricordiamo, di un processo di mafia che in primo grado ha visto molte udienze del dibattimento trasmesse in diretta audio-video. Le motivazioni di questa decisione vennero ribadite nella sentenza, quando si specificò che in gioco c’è il futuro della comunità, e il maggior numero possibile di cittadini deve essere messo a conoscenza di cosa è avvenuto, per far sì che non accada in futuro”.
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