di Paolo Bonacini, giornalista
Mentre il processo d’appello di Aemilia a Bologna si ferma, per evitare i pericolosi affollamenti delle udienze, quello in Corte d’Assise a Reggio per gli omicidi del 1992 corre veloce verso le richieste di condanna che arriveranno, salvo sorprese, venerdì 6 marzo. Sarà il pubblico ministero Beatrice Ronchi ad avanzarle in aula, al termine del terzo giorno di requisitoria. Lo farà partendo dalle dettagliate ricostruzioni che per ore l’hanno vista impegnata nelle precedenti udienze; lo farà tirando le conclusioni dell’incrocio tra evidenze processuali passate, indagini e riscontri investigativi, dichiarazioni di due fondamentali collaboratori di giustizia: Antonio Valerio e Angelo Salvatore Cortese.
Il secondo ha occupato l’intera seconda giornata della requisitoria, venerdì 28 febbraio, e attraverso otto ore di minuziose ricostruzioni il pubblico ministero ha lasciate nell’aula del Tribunale di Reggio la percezione di una personalità assolutamente unica nel mondo della ‘ndrangheta calabrese. Abbiamo parlato tante volte di Angelo Salvatore Cortese, divenuto collaboratore di giustizia il 17 febbraio 2008, da allora spina nel fianco dei suoi ex compagni di malaffare. Ma se dovessimo cercare una biografia completa della sua storia prima criminale e poi di ravvedimento, le cento pagine della seconda giornata di requisitoria della dott.ssa Ronchi sarebbero perfette. Una storia che inizia dalle ragioni del “pentimento”, spiegate durante questo stesso processo il 31 maggio dello scorso anno, quando Cortese venne in aula indossando una maglietta da metallaro che più metallaro non si può: “Quando sono stato battezzato come picciotto” disse allora “mi sembrava di avere fatto 13 al superenalotto. Poi nel tempo ho capito che la ‘ndrangheta è un male incurabile, una metastasi”. A chi parla di “rispetto” verso gli uomini di ‘ndrangheta, Cortese replica: “No. Nessuno ci rispettava. Semplicemente ci temevano! Avevano paura di noi, erano terrorizzati! Abbiamo infettato tutta la parte buona della società, dalla Calabria all’Emilia Romagna, al Piemonte e al Veneto. Dove siamo arrivati noi, abbiamo portato solo distruzione e danni”.
Sono le parole di un pentito che confessa la propria partecipazione ad un omicidio dopo essere stato assolto e indennizzato per ingiusta detenzione: quello di Giuseppe Ruggiero a Brescello. E che di omicidi da allora ne racconta tanti altri, con dovizia di nomi e di dettagli.
23 anni di storia, dal 1985 al 2008, che Cortese ha aiutato la Direzione Antimafia a ricostruire, per capire il prima, il durante e il dopo di quel 1992 che ha rappresentato una svolta, firmata col sangue, negli equilibri di governo della mafia cutrese.
Cortese viene battezzato come “picciotto” nel 1985, è promosso “camorrista” due anni dopo a Papanice, ottiene lo “sgarro” nel 1990 a Cutro. E sempre alla presenza di uomini di alto livello: Raffaele Dragone, Francesco Ruggiero fratello di Giuseppe, Domenico Megna, Carmine Arena, Antonio Ciampà detto Coniglio, il “Polacco” di Reggio Emilia Romano Carmine, Pasquale Nicoscia, Marco Ferrazzo. La “santa” e il “vangelo” gli arrivano in carcere a Bologna nel 1992. Infine il grado più alto, il “crimine”, in contrada Scarazze nel 1999 per mano degli uomini che più contano. Sono Pasquale Nicoscia, capobastone a Isola Capo Rizzuto; Nicolino Grande Aracri, punto di riferimento a Cutro dal 1997; Antonio Pelle detto Gambazza, capo a San Luca, l’uomo che al matrimonio del figlio, occasione di raduno della ‘ndrangheta internazionale, concedeva a Cortese l’onore di saltare la lunga fila di chi portava doni al supremo boss della Locride e poi di bere champagne con lui tra pochi intimi. Segno del credito già allora attribuito anche in provincia di Reggio Calabria alla Famiglia amica di Crotone.
Dopo il pentimento Cortese confessa il proprio ruolo di esecutore o di organizzatore in diversi omicidi e tentati omicidi. A Cutro Rosario Ruggiero detto “Tre dita”, l’assassino del padre dell’altro collaboratore di giustizia Antonio Valerio. Per quell’omicidio Cortese riceve l’ordine di rubare una Fiat Croma e spiega che “Fecimo una targa di cartone”. Poi alle Colonie Padane di Cremona Dramore Ruggiero e a Brescello suo fratello Giuseppe Ruggiero nell’autunno terribile del 1992. E prima ancora, a San Mauro Marchesato, i tentativi fantozziani di uccidere Riccardo Mauro nel 1990. Una volta ci provano travestendosi da carabinieri su una finta auto dei carabinieri, proprio come in riva al Po due anni dopo, ma rimangono senza benzina e con quell’auto imbarazzante ferma ai lati della strada si mettono a dirigere il traffico. La seconda volta si presentano a casa sua ancora travestiti intimandogli di aprire ma Riccardo Mauro non c’è perché un amico maresciallo gli ha fatto una soffiata. La terza volta l’auto truccata buca una ruota e Mauro la fa di nuovo franca. “Si vede che era destino che non morisse”, commenta Cortese. Era destino che arrivasse in aula a Reggio Emilia per deporre, nel 2019, con tante incongruenze e “non ricordo” da spingere il PM Ronchi a riservarsi la denuncia per falsa testimonianza.
Quando, dopo aver fatto fuori i Ruggiero e i Vasapollo, la cosca Grande Aracri decide di far fuori anche i Dragone, Salvatore Cortese non è nel gruppo di fuoco e a Nicolino che gli comunica la morte di Raffaele, nel 1999, va il suo commento asciutto benché sgrammaticato: “Se tu mi avevi chiamato, io avevo partecipato”. E lo ribadisce in aula durante le tante deposizioni nei diversi processi: “A me, se mi chiamavano, io ero disponibile.” Ad uccidere, si intende. E agli avvocati replica: “Chieda a loro perché non mi hanno chiamato! Nella ‘ndrangheta di domande se ne fanno poche…”
Nella ‘ndrangheta, altra massima di Cortese, “Si ammazza anche per non essere ammazzati”.
Quegli omicidi del ’92 a Reggio Emilia hanno più di un movente, più di una persona disposta a commissionarli e a commetterli. E a qualunque livello i vari protagonisti partecipassero, a nessuno di loro veniva in mente di contestarne le ragioni. Dice Cortese: “I Ciampà ci chiamarono, a me, Nicolino Grande Aracri e altri, e ci dissero: dobbiamo ammazzare i Vasapollo e i Ruggiero” che non avevano chiesto permesso al Capo Società per scendere a Cutro ad uccidere Paolino Lagrotteria, scappato dal rogo del Pink Pussycat di Reggio lasciando a morire nelle fiamme Vincenzo Vasapollo, che assieme a lui aveva appiccato il fuoco. “Fatelo al nord” dissero i Ciampà a Cortese e agli altri, e se servono soldi “Ve li facciamo arrivare con le betoniere”.
Nella ‘ndrangheta tutti sono disponibili ad uccidere tutti senza fiatare: questa è forse la più profonda verità raccontata da Angelo Salvatore Cortese nei suoi lunghi anni di racconti e confessioni.
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