di Paolo Bonacini, giornalista
Alle 11,05 di venerdì 21 febbraio 2020 il Presidente della Corte d’Assise di Reggio Emilia Dario De Luca chiude la discussione in aula e dà la parola al pubblico ministero Beatrice Ronchi per la requisitoria finale. Dopo 28 udienze iniziate l’11 febbraio 2019, ad un anno di distanza, è tempo di tirare le conclusioni di questo processo che tocca la parte violente e mostra la mano omicida della ‘ndrangheta di Cutro emigrata al Nord.
La dott.ssa Ronchi, forte dell’esperienza maturata nella vicina aula bunker del primo grado di Aemilia, ha parlato per l’intera giornata (ne sono previste altre due) risolvendo anche un problema annoso delle aule di giustizia in Italia, dove le aste dei microfoni appoggiate sui tavoli sono pensate per gente che sta seduta. Avvocati e pubblici ministeri si alzano invece sempre in piedi quando prendono la parola, per rispetto alla Corte, e così succede normalmente una delle due: o parlano con la schiena piegata sul tavolo (e alla lunga la spina dorsale ne risente) o parlano stando eretti (e la voce si perde nel fastidioso rimbombo dell’aula). Il “metodo Ronchi” consiste nel portarsi da casa uno scatolone di robusto cartone, alto circa quaranta centimetri, per appoggiarci sopra l’asta del microfono, in modo da poter parlare stando eretta ma con la bocca vicina al microfono. Ne guadagna chi parla, costretto a minori fatiche, e ne guadagna chi ascolta, che finalmente comprende ogni parola e ogni virgola del dibattimento. Speriamo che il Codice di procedura penale venga aggiornato con un nuovo articolo, il n. 747, che più o meno potrebbe recitare così: “E’ fatto obbligo a chi prende la parola in aula di utilizzare lo <scatolone Ronchi> per consentire anche al pubblico di capire.”
Venerdì 21 febbraio si è capito bene, in Corte d’Assise a Reggio, di cosa parliamo quando parliamo di ‘ndrangheta. 50 anni di storia e di indagini, con l’attenzione incentrata in particolare sugli ultimi 20, dal 1997 ad oggi. Da quando è passata in giudicato la prima sentenza per l’uccisione di Vasapollo e Ruggiero a quando si è aperto questo processo a 6 nuovi imputati grazie alla rivelazioni dei due collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Angelo Salvatore Cortese. 20 anni, dice Beatrice Ronchi, nei quali la mafia calabrese ha continuato ad espandersi in Italia e si è radicata in Europa, arrivando a sviluppare affari in tutti i continenti, con basi stabili dal Canada all’Australia. Di questa storia il pubblico ministero ha voluto subito richiamare, e c’è voluta un’ora buona, l’impressionante scia di sangue e di morti che ha costellato la lotta tra le famiglie per il controllo di Cutro al sud e di Reggio Emilia e dintorni al nord. Dagli anni ’70 in cui comandava il clan Dragone al 2004, quando l’uccisone di Totò Dragone ha decretato la vittoria finale dei Grande Aracri. Una guerra senza esclusione di colpi nella quale ha avuto un ruolo determinante una terza famiglia, quella dei Ciampà: “Ndranghetisti antesignani della mafia moderna” li definisce Beatrice Ronchi “punto di riferimento storico, ma più sfuggenti, meno propensi a mettersi in mostra con azioni violente e più capaci di mescolarsi con la società civile”. Talmente numerosi, imparentati e ramificati da imprimere il proprio marchio su un paese, Cutro, nel quale la toponomastica riportava anche un “Vico Ciampà”, nella stradina collegata a Corso Nazionale in cui viveva il cuore storico della famiglia. Che ha poi piantato radici con un secondo ramo di Ciampà pure nella contrada Scarazze di Nicolino Grande Aracri, dopo i matrimoni incrociati con i Crivaro, i Dragone e gli stessi Grande Aracri.
Nel raccontare questa storia il sostituto procuratore antimafia mette a fuoco un periodo preciso: l’estate 2017. L’imputato Antonio Valerio inizia a collaborare in giugno e fornisce ai PM che lo interrogano, Mescolini e Ronchi, “Una mole immensa di dati. 35 anni di storia di ‘ndrangheta vissuti in prima persona, con una precisione su nomi e dettagli impressionante.”
E’ Valerio a dire che sugli omicidi del 1992 “è tutto da rifare”. Che ci sono altri colpevoli ancora liberi o non giudicati; che “io stesso sono stato organizzatore di entrambi gli omicidi ed esecutore di quello di Ruggiero”. Il momento forse più intenso di questo primo giorno di requisitoria è quando Beatrice Ronchi rende partecipe l’aula delle decisioni che lei, il procuratore Mescolini e gli uomini della polizia guidati dal comandante Battisti hanno dovuto prendere in quell’estate 2017. C’erano da cercare i riscontro alle affermazioni di Valerio, c’erano da aprire nuove indagini, ma le confessioni del collaboratore si sovrapponevano ad un processo in corso, e che processo! Aemilia, con tre udienze alla settimana, con 149 imputati alla sbarra. C’era una sola possibilità: utilizzare la sospensione del processo per le ferie. Quei 20 giorni d’agosto in cui l’aula bunker veniva chiusa, in cui i più se ne andavano al mare. C’era da lavorare giorno e notte a cercare documenti, tabulati, elementi di riscontro alle dettagliate ricostruzioni di Valerio sul prima, il durante e il dopo, il chi, il come e il perchè di quei due omicidi commessi tra settembre ed ottobre 1992 in provincia di Reggio Emilia. “Un anno” dice ancora Beatrice Ronchi “nel quale perdevamo Falcone e Borsellino; nel quale io studiavo giurisprudenza e neppure immaginavo la guerra di mafia che si stava svolgendo a soli 100 chilometri di distanza, a Reggio Emilia, e che nulla aveva da invidiare ai fatti di sangue che avvenivano al sud”.
La requisitoria è in seguito entrata nel merito, con documenti processuali e dati storici, del profilo criminale di ciascuno degli imputato di questo processo, partendo da Antonio Ciampà classe 1958, soprannominato Coniglio. Ma è proprio la parte iniziale che restituisce a noi, dopo un anno di udienze vissute abbastanza sotto traccia, quasi con disinteresse dalla nostra comunità, l’importanza di questo processo. La dottoressa Ronchi ha ritenuto doveroso aprire la sua lunga esposizione ringraziando la Corte, i giudici togati e popolari, gli avvocati difensori, il personale amministrativo e gli ausiliari, i giornalisti. Poi i ragazzi del liceo scientifico Spallanzani presenti in aula, e sono i primi dall’inizio del processo, assieme al loro prof. Cosentina. Poi le parti civili e il sindaco di Brescello Elena Benassi, che ha voluto presenziare all’udienza, mentre “spiace che non si sia costituito parte civile il comune di Reggio Emilia” dice Beatrice Ronchi. Spiace perché un omicidio è stato compiuto a Pieve Modolena, alla periferia della città. E se in aula non viene l’amministrazione comunale a rappresentare i propri cittadini, parte lesa, poi non stupiamoci se non vengono neppure i cittadini.
I ringraziamenti indiretti, ma più forti, vanno infine ai due collaboratori di giustizia che hanno consentito l’apertura di questo processo: Antonio Valerio e Angelo Salvatore Cortese. Gli aggettivi si sprecano; Valerio “è stato formidabile”, Cortese ha fornito “un imprescindibile apporto”. Entrambi hanno raccontato cose nuove, fatti che non rientravano in nessun fascicolo giudiziario o di indagini. Entrambi hanno consentito di trovare riscontri oggettivi alle loro narrazioni. Entrambi, e non è certamente un fatto secondario, si sono auto accusati come partecipi all’organizzazione degli omicidi. Cortese lo aveva già fatto nel 2008, quando aveva deciso di iniziare la propria collaborazione con la giustizia e aveva raccontato come erano andate veramente le cose rispetto agli omicidi di Vasapollo e Ruggiero. Se allora gli avessero dato ascolto, se avessero iniziato il lavoro di indagine compiuto dalla DDA nell’estate 2017, forse si sarebbe arrivati prima alla conclusione di questa storia. “Non ci voleva la CIA per capire cosa e come fare a cercare i riscontri sulle cose narrate da Cortese.” E’ uno dei modi coloriti con cui la dottoressa Ronchi spiega che negli anni forse si è perso un po’ troppo tempo.
Lo ha detto chiaro e tondo, e noi l’abbiamo capito molto bene.
Grazie allo scatolone sotto al microfono.
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