Verità per Giulio Regeni

MARCHESI, CONTI E CAVALIERI SENZA CAVALLO

di Paolo Bonacini, giornalista

Una junior suite al palazzo Dalla Rosa Prati di Parma costa circa 140 euro a notte (190 con la colazione). Dormirete di fianco al Battistero della città ducale, nella piazza del Duomo, in una lussuosa stanza dal sapore antico, con caldi arazzi a mò di baldacchino a capo del letto e il pavimento in parquet a spina di pesce italiana, la più nobile e pregiata. La residenza di lusso è gestita dai discendenti della celebre famiglia nata dal matrimonio, nel 1694, tra i marchesi Marianna Prati e Pier Luigi Dalla Rosa. L’albero genealogico del casato annovera un Guido Dalla Rosa Prati, deputato del partito monarchico costituzionale nel XIX secolo, sindaco della città e scopritore delle fonti termali di Salsomaggiore. In tempi più vicini a noi Sisto Dalla Rosa Prati fu consigliere comunale del Partito Liberale, fino al 1970, e presidente della Giunta dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio.

Appartiene al casato anche la marchesa Zaira Dalla Rosa Prati, il cui nome è riecheggiato in Corte d’assise a Reggio Emilia nell’ultima udienza di Grimilde, dove si discutono gli affari e si giudicano gli imputati nel processo alla cosca di ‘ndrangheta guidata dalla famiglia Grande Aracri.

Di lei hanno parlato, mentre rispondevano alle domande del PM Beatrice Ronchi, i due testimoni Bruno Diego e Barbara Viscardi, compagni nella vita ed anche nello sfortunato incontro con Salvatore e Francesco Grande Aracri, il primo già condannato nel rito abbreviato del processo, il secondo imputato in quello ordinario. Bruno Diego è un broker finanziario di Parma che aveva promesso, si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna di Salvatore Grande Aracri, “il buon fine di una importantissima richiesta di finanziamento che avrebbe consentito ai Grande Aracri di procedere ad acquisire i lavori per una importante lottizzazione in corso”.

Le attività edilizie ed immobiliari a cui era interessata la famiglia di Brescello in quel di Parma erano in realtà più di una e l’aggancio con l’operatore finanziario Bruno Diego era avvenuto attorno ad un tentativo di commercio di gasolio, per il quale i Grande Aracri e i loro compari erano “alla continua ricerca di fideiussioni utili a garantire l’attività di compravendita di idrocarburi”. La parte più significativa di queste relazioni è molto recente, nella primavera del 2019, e vede Grande Aracri padre e figlio (Francesco curava l’aspetto tecnico, Salvatore quello finanziario) alla ricerca di un credito, circa sei milioni di euro, necessario per la realizzazione di 76 villette bifamiliari da costruire nella zona del campus universitario di Parma. Tra gli interessati a quelle villette, racconta Diego, c’era anche “una persona di Parma molto importante, di una famiglia nobile, che Salvatore Grande Aracri portò nel mio ufficio”. Si tratta appunto della marchesa Zaira Dalla Rosa Prati, che a detta di Bruno Diego era particolarmente interessata all’acquisto di una o più villette, una volta costruite. Circostanza ribadita anche dalla fidanzata/compagna di Diego, Barbara Viscardi, che in questa storia è la persona che certamente ci ha rimesso dei soldi: 20mila euro. Lei è titolare di un negozio di arredamento e nel vicino bar di Parma ha incontrato sia Salvatore che Francesco, dai quali il suo compagno si sentiva “intimidito, pressato, ossessionato”. La situazione si era fatta “angosciante” aggiunge, e per aiutare Diego sborsò lei quei soldi, 19mila con bonifico e mille in contanti, senza ricevute, che poi non vedrà mai più. Anche Bruno Diego ci rimette dei soldi, almeno 30 mila euro, ma su di lui calano anche le minacce e le intimidazioni. Preso a schiaffi davanti a un bar e spogliato dei propri braccialetti d’oro trattenuti a titolo di garanzia, perché ritenuto responsabile di non essere riuscito a portare a buon fine la concessione del finanziamento da sei milioni presso la banca “Crédite Agricole”. Che la colpa fosse della lacunosa o dubbia documentazione delle società dei Grande Aracri (e dei loro compari: i Pistis, i Passafaro, Claudio Bologna…) poco importa. Il problema resta in capo a Bruno Diego, che ben presto si accorge, come tanti altri colletti bianchi prima di lui, di quanto sia grande il divario tra il sogno del possibile arricchimento e la realtà del quotidiano incubo, se hai a che fare con mafiosi. Racconta Barbara Viscardi che il suo compagno “piangeva, perché temeva rappresaglie, e tutti i giorni Salvatore si presentava nel suo ufficio dicendo che i suoi amici avevano bisogno del finanziamento”. Con che toni lo dicesse emerge dalle intercettazioni agli atti del processo, quando Salvatore Grande Aracri dice ad un amico, parlando di Bruno Diego: “Ti farò fare da manovale, perché porto le mazze per buttar giù l’ufficio”. Intendendo forse che poi ci sarebbe stato da ripulire.

I professionisti del mercato che si legano a personaggi della cosca, siano commercialisti, operatori finanziari, funzionari di banche e uffici postali, imprenditori più o meno affermati, vivono spesso “una luna di miele” come disse nella requisitoria del processo Aemilia il Pubblico Ministero Marco Mescolini, che però “è destinata a finire perché costoro (i mafiosi) non si accontentano mai”.

La storia di Bruno Diego, che è parte offesa al processo Grimilde, è da questo punto di vista esemplare e simile a tante altre. Meno consuete nelle storie emiliane della ‘ndrangheta sono le relazioni con l’alta aristocrazia che soprattutto nella Parma dei Farnese e di Maria Luigia vanta ancora nobili casate. Precisato per dovere di cronaca che la famiglia Dalla Rosa Prati non ha alcun coinvolgimento nelle indagini di Aemilia o di Grimilde, resta la curiosità relativa alla capacità del rude “Calamaro”, soprannome del condannato Salvatore Grande Aracri, di muoversi a proprio agio sia negli uffici dei broker che nei salotti della nobiltà cittadina.

I riferimenti ai titoli nobiliari, nelle complessive carte dei processi alla ‘ndrangheta emiliana, sono veramente rari. L’unico altro nome blasonato, che a memoria si intreccia con le storie di truffe e reati in Aemilia, è quello di un non meglio precisato conte Marco Polis, emerso in merito a un recupero crediti che Antonio Valerio, prima mafioso poi collaboratore di giustizia, doveva svolgere tra il 2011 e il 2012 per conto di Giuseppe Le Rose e di un altro imprenditore siciliano che viveva in Veneto. Dai racconti di Valerio emergono opere di recupero per l’Opus Dei, relative ad un convento da destinare a preti in pensione, lavori edili al San Raffaele di Milano e in Toscana, titoli di credito depositati a Malta, e in mezzo questo conte Polis che gestiva una Fondazione assai interessante. Perché “le Fondazioni hanno ‘sta possibilità di ricevere forti somme di denaro ed essendo non a scopo di lucro, anzi benefico, hanno la possibilità di gestire grosse somme senza giustificarne la provenienza”.

Il conte Mario Polis era un maestro d’Oriente dei Cavalieri della Croce Nera e la Fondazione, dice Valerio, “era proprio intestata a questo cavalierato qua”.

A quel punto il dialogo con i sostituti procuratori si rilassa e Marco Mescolini gli chiede: “E lei Valerio, è cavaliere di qualcosa?”

Antonio Valerio: “No. Purtroppo no”

Beatrice Ronchi: “Un cavaliere senza cavallo?”

Antonio Valerio: “Cavaliere della Tavola Rotonda… senza cavallo. Ma a fare il Lancillotto non ci tengo, ecco.”

Forse perché Lancillotto è morto eremita e in miseria.

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