Verità per Giulio Regeni

LA RESA DEI CONTI

Non sono necessariamente gli anni di condanna in una sentenza il termometro attraverso cui misurare il grado di compromissione con la criminalità organizzata (anche di stampo mafioso) di chi dovrebbe al contrario, per mestiere, rappresentare e difendere l’interesse pubblico.

di Paolo Bonacini, giornalista

Non sono necessariamente gli anni di condanna in una sentenza il termometro attraverso cui misurare il grado di compromissione con la criminalità organizzata (anche di stampo mafioso) di chi dovrebbe al contrario, per mestiere, rappresentare e difendere l’interesse pubblico.
Giulio Gerrini, ex responsabile dei Lavori Pubblici nel comune di Finale Emilia (Modena), è stato condannato in via definitiva nel processo Aemilia a 2 anni e 4 mesi per avere abusato delle sue prerogative, nei mesi difficili della ricostruzione port terremoto 2012 in Emilia Romagna, al fine di avvantaggiare le imprese della famiglia Bianchini nell’assegnazione degli appalti pubblici.
I Carabinieri hanno documentato con le indagini quale fosse l’interesse nella vicenda del dirigente Gerrini: il premio del 2% sul monte lavori riconosciuto dalla amministrazione comunale ai responsabili delle gare pubbliche. Poiché di responsabili c’era solo lui, e poiché ad assegnare il premio era un secondo dirigente comunale, Giuseppe Silvestri, diventato anche presidente della Bianchini Costruzioni srl dopo l’esclusione dell’impresa dalla White List della Prefettura, Gerrini si è intascato un bel gruzzolo. “Abbastanza” dice in aula durante il processo il maresciallo del nucleo investigativo dei Carabinieri di Modena Guido Costantino, “da comprarsi una barca da diporto lunga 10 metri”. Il reato penale di cui deve rispondere Gerrini si misura dunque con 2 anni e 4 mesi di condanna secondo il processo Aemilia, ma si può misurare anche in un altro modo, altrettanto efficace: a soldi.
La Corte dei Conti è l’organismo costituzionale che vigila sulle amministrazioni dello Stato, per impedire e prevenire sperperi e cattive gestioni dei soldi pubblici. La Procura della Corte, ad inizio estate, ha quantificato il danno pubblico prodotto dal comportamento del dirigente Gerrini in 337mila euro; la successiva sentenza ha ridotto la richiesta dell’accusa a 100mila euro, che Gerrini dovrà pagare al comune di Finale Emilia come danno d’immagine determinato dal suo comportamento. Meno di un terzo di quanto richiesto dalla Procura, ma comunque una bella cifra, sufficiente ad esempio per mettere in mare quella “barca da diporto lunga 10 metri” altrimenti destinata a restare nel cassetto dei sogni.
Sono centomila euro che valgono almeno quanto i 2 anni e 4 mesi di condanna penale, per dare a tutti il senso del danno prodotto. Accumularli è cosa lunga e difficile, ammesso che ci si riesca, per la maggioranza delle persone normali e oneste. Chi sceglie la via facile della collusione con le organizzazioni criminali, o più in generale dell’azione illegale per ottenere il risultato, sa benissimo cosa fa e almeno sul piano morale non ha attenuanti.
Vale per Giulio Gerrini come vale per Domenico Mesiano, all’epoca dei fatti assistente capo di Polizia e addetto stampa della Questura di Reggio Emilia, che la stessa cifra di 100mila euro dovrà pagarla al ministero dell’Interno come risarcimento per il danno d’immagine generato dal suo coinvolgimento nelle trame mafiose di Aemilia. Mesiano ha subito una condanna più pesante di Gerrini, 8 anni e 6 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, che sta scontando in carcere dopo la sentenza definitiva dell’ottobre 2018. Si era messo al servizio della ‘ndrangheta operante a Reggio Emilia, lui che da poliziotto avrebbe dovuto combatterla. Arrivando anche a minacciare la giornalista Sabrina Pignedoli, lui che da poliziotto avrebbe invece dovuto sostenerla nel suo lavoro di divulgazione delle attività illecite di uomini della cosca. Anche un altro “poliziotto infedele”, l’agente calabrese Domenico Cianflone, dovrà risarcire per 100mila euro il ministero dell’Interno, mentre la sezione della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna, presieduta da Tammaro Maiello, ha stabilito con la sentenza del 7 luglio scorso che nessuna cifra dovrà risarcire al comune di Parma l’ex presidente del consiglio comunale Giovanni Paolo Bernini. Anche per lui la Procura della Corte aveva chiesto 100mila euro a compensazione del danno d’immagine provocato dall’esponente di Forza Italia. Ma la Corte ha preso atto che Bernini, a sua volta imputato nel processo Aemilia, non è stato condannato. L’originaria accusa di concorso esterno in associazione mafiosa è caduta e il reato di corruzione elettorale di cui doveva rispondere è andato in prescrizione. La mancanza di una sentenza di condanna non può supportare una richiesta di risarcimento, dice la Corte, per cui l’azione della Procura contabile nei suoi confronti è nulla. Ma la prescrizione non è assoluzione e la richiesta di risarcimento poggiava sul presunto versamento di 50 mila euro effettuato da Giovanni Paolo Bernini al boss Romolo Villirillo in cambio di preferenze elettorali. L’ombra del dubbio infamante per un politico, la corruzione elettorale, resterà sempre sul suo operato.
Intanto negli stessi giorni in cui si muove la Corte dei Conti, alla resa dei conti arrivano altre storie pesanti di criminalità organizzata in Emilia Romagna. Sono quelle svelate dall’indagine Billions, coordinata dalla Procura di Reggio Emilia, che per numero degli indagati e volume degli affari illeciti non ha nulla da invidiare ad Aemilia. Al termine delle indagini preliminari il sostituto procuratore Giacomo Forte ha chiesto il rinvio a giudizio per 193 delle 201 persone inizialmente indagate, coinvolte secondo le indagini di Guardia di Finanza e Polizia negli affari di una organizzazione criminale specializzata in reati tributari, frodi fiscali e bancarie, dedita al riciclaggio e all’emissione di fatture da parte di società fantasma per operazioni inesistenti. Se sommiamo a questi 193 le 15 condanne in abbreviato e i 12 patteggiamenti di pena decisi a gennaio davanti al giudice Dario de Luca nel primo troncone di Billions, arriviamo a 220 imputati, lo stesso numero di Aemilia. Il volume delle false fatturazioni è impressionante: 80 milioni di euro nella prima inchiesta, 240 milioni nella seconda. Impressionante anche la mole di denaro in contanti sequestrata dalle Forze dell’Ordine, con pacchi di banconote da 50 e 100 euro scovati dai cani nei luoghi più impensabili, come dietro ai forni delle cucine.
L’organizzazione criminale era strutturata in 10 “cellule”, autonome territorialmente ma collegate tra loro, con una sorta di cassa comune nella quale confluivano soldi da riciclare o utili da spartire, come spiegarono al termine dell’inchiesta, assieme all’allora procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, il dirigente della Squadra Mobile Guglielmo Battisti e il maggiore Maria Concetta di Domenica della Guardia di Finanza.
“Si guadagna anche mille euro al giorno” diceva due anni fa Salvatore Innocenti, condannato a sei anni a gennaio nel primo processo Billions. Frase che fa il paio con quella del collaboratore di giustizia Giuseppe Giglio agli atti di Aemilia: “A Reggio Emilia il guadagno maggiore che arrivasse alla ‘ndrangheta era la fatturazione. Fruttava 70, 80, anche 100mila euro al giorno”.
La continuità tra le attività finanziarie illecite della cosca di ‘ndrangheta e la falsa fatturazione dell’organizzazione svelata da Billions è straordinaria. Tra i duecento indagati di Billions circa 130 risiedono stabilmente in provincia di Reggio Emilia, con i maggiori affollamenti nel comune capoluogo, a Cadelbosco Sopra, Montecchio, Bibbiano e comuni rivieraschi: esattamente come in Aemilia.
Segno di una nefasta contaminazione tra criminalità organizzata comune e di stampo mafioso.
Ma Billions, come prima Aemilia, va ben oltre la provincia reggiana. In Emilia Romagna sono coinvolte persone residenti nelle province di Parma, Modena, Piacenza e Bologna. Le attività spaziavano in altre 13 regioni italiane e pure in diversi paesi esteri, con imputati residenti in Romania, Bulgaria, Moldavia, Russia, Ucraina, Croazia, Svizzera e Germania.
Tra i personaggi coinvolti i più noti alle cronache sono Giuseppe Aloi, condannato a 6 anni e 6 mesi nel primo grado di Aemilia; Luigi Brugnano (10 anni e 6 mesi in primo grado); Alfonso Frontera (8 anni); Vincenzo Vasapollo, già condannato per il tentato omicidio di Antonio Valerio e cugino del Nicola ucciso a Pieve Modolena nel 1992. Ai vertici delle cellule, collegate da un impressionante numero di movimenti finanziari che terminavano con il prelievo di contanti, stavano secondo l’accusa un reggiano di 55 anni, Luca Bonacini di Quattro Castella, il cremonese Giorgio Bellini di 61 anni, e otto persone di origine o di famiglia calabrese, quasi tutte residenti a Reggio Emilia: Giuseppe Gareri, Luigi Brugnano detto “Gino”, Giuseppe Stirparo detto “Spike” o “Dumbo”, Antonio Sestito, Nicola Lombardo, Pietro Arabia, Michele Caccia e Salvatore Mendicino detto “il barese”.
Sono i capi che avrà di fronte tra circa un mese, nell’udienza preliminare, il giudice chiamato a guidare il processo Billions. Si tratta di Andrea Rat, già membro del collegio giudicante di Aemilia nel primo grado del rito ordinario celebrato nell’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia. La sua esperienza maturata in quei tre anni di udienze è una garanzia rispetto alle dimensioni di questo nuovo processo. Ma l’aula bunker oggi non c’è più: quel prefabbricato bianco innalzato in fretta nel 2016 per consentire lo svolgimento nella sua sede naturale del più grande processo alla mafia del nord Italia, è stato smantellato e nella piazzetta del Tribunale è tornato finalmente a splendere il sole. Forse, viste le dimensioni di Billions, tenerlo in vita qualche altro mese non sarebbe stato insensato.

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