di Paolo Bonacini, giornalista
Arthur Schnitzler, grande scrittore e commediografo austriaco d’inizio Novecento, diceva: “Credi di esserti pentito? Ma ti sei soltanto battuto il petto”. Perché, aggiungeva, “Difficilmente il pentimento è qualcosa di più della constatazione che un certo vantaggio non valeva il prezzo pagato per ottenerlo”.
Forse sta in questa amara verità la parabola giudiziaria di Nicolino Sarcone, capocosca della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, al quale la settimana scorsa la Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha confermato i 30 anni di carcere del primo grado (rito abbreviato) per i due omicidi di mafia commessi a Reggio Emilia e Brescello nell’autunno del 1992. Furono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero nella guerra per il controllo del territorio che portò morte in Emilia, Lombardia e Calabria. Sarcone sparò di suo pugno a Vasapollo nell’appartamento della periferia reggiana dove la vittima si trovava agli arresti domiciliari, e procurò le divise da Carabinieri per il travestimento utilizzato dal commando che un mese dopo uccise Ruggiero a Brescello.
Non c’è molto da aggiungere su quei fatti perché lo stesso Sarcone li ha ammessi. Nell’Appello in Corte d’Assise accusa e difese non hanno battagliato sulla partecipazione o meno di Nicolino ai due omicidi, ma sulla verità o meno del suo pentimento, e di conseguenza sulle attenuanti e sugli eventuali sconti di pena da applicare in sentenza.
Non è un tema di poco conto, perché i 30 anni di carcere a lui inflitti in primo grado sono cosa ben diversa dagli 8 toccati ad Antonio Valerio, a sua volta reo confesso e collaboratore di giustizia. Sulla reale volontà di Sarcone di collaborare con la Giustizia hanno puntato gli avvocati difensori Carmine Curatolo e Sabrina Mannarino, mentre il sostituto procuratore generale Lucia Musti ha ribadito quanto già sostenuto dall’accusa in primo grado, e cioè che “la scelta di Sarcone non è stata accompagnata da una leale disponibilità a fornire tutte le notizie in suo possesso”.
La Corte d’Assise ha dunque dato ragione all’accusa, che ha svolto una accurata ricostruzione storica, partendo dalla lettera inviata da Sarcone il 25 ottobre 2017 alla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna. C’era scritto: “Avendo fatti importanti da riferire, chiedo di poter parlare urgentemente con i Sostituti Procuratori titolari del mio procedimento”. Quei magistrati erano Beatrice Ronchi e Marco Mescolini, pubblici ministeri al processo, e Lucia Musti ricorda in Appello alcuni scambi di battute significativi relativi ai due interrogatori in seguito verbalizzati, il 27 ottobre e il 6 novembre.
PM: “Lei ha tre fratelli maschi di cui uno, Gianluigi, è detenuto. Questi sono esponenti della ‘ndrangheta?”
Sarcone: “No”
PM: “E già questa è una risposta che…”
Sarcone: “…Non vi piace. Però, se volete la realtà, io vi dico così”.
PM: “Quindi, per quanto è a sua conoscenza, Sarcone Grande Giuseppe non è affiliato alla ‘ndrangheta…”
Sarcone: “Per quanto mi riguarda e che io sappia, non è un affiliato. Che poi ha fatto la fatturina o ha fatto quelle cose… Ma non è ‘ndrangheta. Riguardo a Gianluigi, mio fratello, è stato affiliato nel 1993 nel carcere di Crotone. Finita quella carcerazione, non ne ha più voluto sapere, si è messo a lavorare veramente di cuore.”
PM: “E Carmine?”
Sarcone: “Carmine è lo stesso. Che ci conosciamo tutti, sicuramente. Ma che vi dico che Carmine è affiliato, non è affiliato.”
È solo l’inizio, perché i passaggi dell’interrogatorio ripresi da Lucia Musti suonano impietosi per Nicolino Sarcone che a volte pare arrampicarsi sugli specchi, come quando dice secco: “Al nord non ci sono reati di ‘ndrangheta. Dottò, io da quando sono al nord ho cercato di lavorare”.
A sostegno della tesi: “non siamo mafiosi”, parla degli invitati al matrimonio di suo fratello Carmine. Pochi, solo gli amici dell’infanzia, per dire in conclusione: “Se eravamo criminali li invitavamo tutti, gli appartenenti alla ‘ndrangheta”. Non c’erano tutti, certo, ma gli altri capi Francesco Lamanna e Alfonso Diletto sì. Non c’erano tutti, ma è lo stesso Nicolino Sarcone a raccontare che Lamanana e i Grande Aracri si lamentarono dei pochi inviti, persino in un incontro nella famosa tevernetta di Mano di Gomma dove, dice Sarcone, “È stata registrata mezza Italia, ci sarà anche la registrazione di mio fratello”. Come se ciò fosse una attenuante.
Il problema di Sarcone è che, quando si svolgono i colloqui per verificare le sue reali intenzioni, ci sono 15 anni di condanna sulle sue spalle già passati al vaglio dell’Appello di Aemilia. In quel 2017 il sostituto procuratore Beatrice Ronchi gli chiese: “Lei era il capo? Perché di questo viene accusato. E il capo di chi?”
La risposta di Sarcone viene riproposta da Lucia Musti alla Corte d’Assise: “Non lo ero. Se devo dire così, non lo ero. Io nell’operazione Aemilia c’ho tre, quattro episodi dove, se li chiamiamo reati, mi posso ritenere colpevole; cose che non sono condivise con la ‘ndrangheta, nessuna cosa. Perché io, quando sono stato a Reggio Emilia, mi sono tenuto fuori da tutti i reati. Da tutti i reati”.
Purtroppo per Nicolino Sarcone e per l’intera sua famiglia insediata a Bibbiano (RE) c’è una verità giudiziaria che dice il contrario. Nel 2013 è condannato per il 416bis, appartenenza ad organizzazione criminale mafiosa, nel processo Edilpiovra. Nel 2018 diventa definitiva la sua condanna nel processo Aemilia, e non solo per avere partecipato alle attività della cosca, ma “per avere diretto il sodalizio, con il ruolo di promotore ed organizzatore, in particolare per la città di Reggio Emilia”.
Sulla sua statura di capo e sulle sue responsabilità convergono le dichiarazioni di tutti i collaboratori di giustizia di Aemilia, con Antonio Valerio che allarga ai fratelli la responsabilità del comando. Carmine, condannato il 3 novembre scorso in Appello a 9 anni di reclusione, è definito “il reggente a piede libero” tra il 2015 e il 2018, fino all’arresto avvenuto la notte del 23 gennaio nell’appartamento della suocera a Cutro. Era, sempre per Valerio, “La faccia bella della famiglia”, mentre l’altro fratello Gianluigi, condannato a 19 anni e 10 mesi nel primo grado di Aemilia, “è quella intelligente”.
A fronte di questo quadro, con il processo Aemilia in corso a Reggio Emilia, è comprensibile perché nel 2017 le Direzioni Antimafia di Bologna e di Catanzaro, dopo i primi tre interrogatori, abbiano “rispedito al mittente” dice Lucia Musti, “l’offerta di Nicolino Sarcone, rimasto al cosiddetto carcere duro, il 41 bis, riservato ai mafiosi. Si è trattato, per larghi tratti, di una collaborazione non genuina, finta, non modificata neppure a fronte di ripetute contestazioni dei pubblici ministeri dovute alla evidente falsità delle dichiarazioni rese”.
Perché quel tentativo? Perché, sono ancora parole del sostituto procuratore generale Lucia Musti, “in una situazione disperata Sarcone ha pensato bene di architettare questa strategia, far credere di essersi pentito raccontando cose in ordine alle quali ormai era spacciato, i due omicidi del 1992, ma negando strenuamente ogni responsabilità per Aemilia e affermando che i fratelli non sono mafiosi: si erano limitati a fare banali false fatturazioni”.
La sentenza accoglie questa tesi ma c’è un altro elemento decisivo richiamato dall’accusa nella requisitoria davanti alla Corte d’Assise, che rimanda alla differenza sostanziale tra “collaboratore di giustizia” e “pentito”. Ipotizziamo che Nicolino Sarcone, come sostenuto dai suoi difensori, possa essersi pentito realmente di ciò che aveva fatto. Ammettiamo che abbia capito, magari dopo aver letto Schnitzler, che il delirio di onnipotenza e le ricchezze del capo ‘ndrangheta non valevano il prezzo dei lunghi anni di galera pagato alla giustizia. Ciò non basta a fare di lui un collaboratore. Alla Giustizia, brutalmente, interessa poco se un mafioso si pente. Interessa invece se quel mafioso offre elementi nuovi e utili alle indagini. Ma, conclude la dott.ssa Musti, il contributo di Sarcone sotto questo punto di vista è stato nullo: “La sua confessione deve essere nettamente ridimensionata, difettando dei requiliti della novità e della utilità, potendosi anzi considerarla del tutto superflua, senza alcun concreto nuovo spunto investigativo”.
Archiviato il caso di Nicolino Sarcone, il processo Aemilia corre intanto velocemente verso la conclusione dell’Appello nell’aula della Dozza a Bologna, con la spada di Damocle del covid che potrebbe allungare i tempi. Nell’udienza del 9 dicembre dovrebbe terminare la trattazione dei 120 casi discussi in un anno di sedute, ma ci sono due imputati in carcere costretti ad una quarantena forzata per essere entrati in stretto contatto con persone risultate positive al tampone. Si tratta di Maurizio Cavedo, in carcere a Bologna, e Gaetano Blasco, rinchiuso a Tolmezzo. Le posizioni di entrambi sono già state discusse in aula, per cui il presidente della Corte Alberto Pederiali si è affidato ai loro legali: o rinunciano ad assistere alle ultime udienze o il Tribunale sarà costretto a rinviare le sedute per rispettare il loro diritto ad essere presenti. La data della sentenza dipenderà molto dalla loro risposta.
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