di Paolo Bonacini, giornalista
I “boschetari” in rumeno sono i senza tetto, i vagabondi, i barboni. Se vuoi offendere uno gli puoi dire: “Ce, trăiesti într-un sat de boschetari??” Che significa: “Ma dove vivi, in un villaggio di barboni?”
Il nome è circolato grazie ad una delle prime inchieste contro il caporalato messe a segno dopo l’introduzione della legge 199 del 2016, che contiene le “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento nel settore agricolo”. Al termine della vicenda giudiziaria il tribunale di Catania ha emesso tre condanne nel dicembre 2019 per “sfruttamento del lavoro e traffico di esseri umani”. In galera sono finiti tre rumeni alla guida di una associazione a delinquere che portava in Italia persone vulnerabili, spesso analfabeti, mandandole poi a lavorare nei campi in condizioni sub umane, dicono gli atti. Una donna era stata barattata per una partita di arance; un’altra, sessantenne, minacciata e derisa perché troppo vecchia. Non mancava neppure lo sfruttamento della prostituzione minorile, magari per spremere anche di notte chi già di giorno era costretto a spaccarsi la schiena nei campi. I tre hanno preso dai 10 ai 20 anni di galera mentre la CGIL, che si era costituita parte civile, ha ricevuto nel primo grado una provvisionale di 10mila euro. La legge approvata nel 2016 (con l’astensione di Lega e Forza Italia) condanna non solo chi recluta i lavoratori per sfruttarli, ma anche chi li “utilizza, assume o impiega” sottoponendoli a condizioni di sfruttamento “ed approfittando del loro stato di bisogno”. Perché è troppo comoda “comprare” rumeni a poco prezzo facendo finta di non sapere da dove vengono o quanto li paga o come li tratta chi li scarica ogni mattina all’alba nei campi. È troppo comoda in sostanza buttare la responsabilità sui caporali e portare a casa il beneficio di un costo irrisorio e fuori dal mercato.
Purtroppo di boschetari in Italia ce ne sono tanti, e non necessariamente tutti di origine rumena. 45 di loro, pachistani o afgani e in gran parte richiedenti asilo, lavoravano per alcune aziende agricole in Emilia Romagna, distribuite tra le province di Forlì (nel capoluogo e a Castrocaro), Rimini (San Clemente e San Giovanni in Marignano) e Ravenna (Bagnara di Romagna). A gestire la loro vita erano quattro “caporali” ora arrestati, anche loro pachistani, che avevano la base operativa in un casolare agricolo affacciato sulla strada provinciale n.48, nelle campagne del comune di Bagnara, non lontano dal fiume Santerno che separa le province di Ravenna e Bologna. Il racconto del dirigente della Squadra Mobile di Forlì che ha condotto le indagini, dott. Mario Paternoster, rende bene l’idea di come al giorno d’oggi possano tranquillamente convivere a casa nostra un sistema di tutele dei diritti proprio delle democrazie avanzate e un sistema di sfruttamento e oppressione proprio della tratta degli schiavi. Quelle 45 persone, reclutate e portate via dai caporali addirittura nei centri di accoglienza, raccoglievano frutta e verdura, o potavano gli alberi e le vigne, lavorando nelle proprietà di coltivatori diretti e stimate aziende agricole della Romagna che affidavano l’appalto della mano d’opera a due società fittizie messe in piedi dai caporali, risparmiando così dal 30 al 40% sui prezzi del mercato legale e pagando spesso in nero. I lavoratori erano costretti a turni settimanali dalle 60 alle 80 ore, contro il tetto massimo delle 44 previste dal contratto agricolo. La paga era mediamente di 250 euro al mese, dai quali andavano però sottratti circa 200 euro che ogni lavoratore doveva pagare ai caporali per il vitto e l’alloggio. Le immagini girate dalla Polizia mostrano che dietro le mura di quel casolare si dormiva su materassi fatiscenti gettati per terra; le condizioni igieniche erano indecenti e il cibo pure. Durante il lavoro nei campi era proibito fermarsi per i propri bisogni e non c’era alcun luogo protetto dal sole dove poter consumare un pasto. Un furgone li caricava il mattino portandoli al lavoro e li scaricava la sera al rientro, senza nessuna possibilità di vita sociale per questi giovani afgani e pachistani. Una vita da schiavi, isolati dal mondo, per mettersi in tasca 50 euro al mese. E, come non bastasse, se qualcuno manifestava la volontà di rivolgersi ai sindacati per fare valere i propri diritti (è successo) allora scattavano minacce e aggressioni.
Sul fronte degli utili, ai caporali andava la fetta più grossa del poco che gli imprenditori locali pagavano. Incassavano dai 12 ai 13 euro l’ora, assai al di sotto dei compensi legali del settore, sufficienti comunque per inviare in Pakistan attraverso operazioni di “money transfer” il guadagno dell’attività. Che nei mesi in cui gli inquirenti hanno documentato il fenomeno è risultato di circa 100mila euro. L’indagine racconta un fenomeno che negli ultimi anni è cresciuto in misura esponenziale tanto in Emilia Romagna che nel resto del paese. Alla fine dell’anno scorso il comando dei Carabinieri ha illustrato a Roma i dati raccolti dalle unità speciali impiegate presso gli ispettorati territoriali del lavoro, che parlano di incremento del 260% dei reati legati al caporalato tra il 2017 e il 2019. Più vicino a noi, nel 2018 il giornale telematico Cesena Today scriveva che “Il caporalato non riguarda più solo le campagne del Foggiano o l’Agro Pontino laziale. La nuova frontiera della schiavitù moderna è in preoccupante aumento anche sul territorio romagnolo, dove nell’ultimo anno e mezzo ci sono stati decine di arresti e denunce a piede libero, con la scoperta di oltre 200 lavoratori ridotti in condizione di semi-schiavitù. Nell’ultimo blitz a Cesena i Carabinieri hanno fatto irruzione in allevamenti avicoli che sfruttavano in condizioni disumane una ventina di lavoratori marocchini”.
Le condizioni “disumane” significano ad esempio vivere in venti in un tugurio spendendo 150 euro al mese per il posto letto, rispondere a false cooperative che di mutualistico non hanno proprio nulla, ricevere i miseri compensi dilazionati nel tempo dalle bande di sfruttatori per evitare il rischio di denunce, non potersi ammalare per non essere immediatamente sostituiti, non poter protestare per non essere immediatamente minacciati. E’ il “mercato delle braccia”: braccia di immigrati irregolari che anche in Emilia Romagna arrivano dalla Romania, dal Marocco, dal Pakistan, dall’Afghanistan, e da ogni altro paese dove guerre e povertà spingono alla fuga. Persone che arrivano qui con una speranza di riscatto salvo perdere anche l’unica cosa rimasta loro: la dignità.
L’indagine di Bagnara di Romagna ha portato alla denuncia anche di 8 persone a piede libero, tutte italiane. Sono i titolari delle attività agricole che appaltavano il lavoro ai caporali e il proprietario del casolare dove gli immigrati dormivano. È un bene che si persegua anche il committente locale e non solo i gestori del servizio di caporalato, ma la vera posta in gioco non è tanto o solo il destino giudiziario di chi viola le norme contro lo sfruttamento, quanto il destino umano di chi lo sfruttamento l’ha subito. Delle parti offese, che hanno nome e cognome. Nella vicenda di Bagnara di Romagna si chiamano Zadran, Shafiq, Hayat, Hullah… Sono 21 e li tutela davanti al Tribunale di Forlì l’avvocato Gian Andrea Ronchi, che rappresenta la CGIL nella sua azione, cocciuta e convinta, di contrasto al caporalato. Queste persone hanno perso il lavoro, per quanto infame fosse, e si sono trovate nei mesi del Covid richiuse senza prospettiva in quel casolare di Bagnara dove i caporali li tenevano al guinzaglio. A metà del mese di aprile l’avvocato Ronchi ha accompagnato il sindaco di Bagnara Riccardo Francone ad incontrarli ed è stato un momento importante: “Ci siamo resi conto delle loro condizioni, abbiamo conosciuto i ragazzi, abbiamo consegnato loro le mascherine e vogliamo aiutarli a tornare ad una vita dignitosa” ha detto il sindaco dopo l’incontro. Dal canto suo l’avv. Ronchi ha scritto alla Procura di Forlì che conduce le indagini, chiedendo per i lavoratori ancora irregolari il nulla osta alla concessione di un permesso di soggiorno per “motivi di protezione sociale”. La norma prevede che la buona fede del lavoratore sia testimoniata dall’aver presentato denuncia contro lo sfruttamento e dall’aver cooperato attivamente nel procedimento penale. Le due condizioni debbono concorrere assieme ma è davvero poco realistico pensare che ragazzi e ragazze sfruttati, minacciati, che non parlano italiano, che hanno storie di intimidazioni e sopraffazioni alle spalle, possano da un giorno all’altro adeguarsi agli articoli di legge e passare alla denuncia. È una strada sulla quale debbono essere accompagnati, per costruire una opportunità di vita dignitosa. Vanno aiutati, non messi sotto esame.
Due secoli fa gli schiavi attraversavano l’Atlantico in catene, stipati come bestie nelle stive delle navi, per fare contenti i benestanti d’Ameria e d’Europa. Non è una consolazione che nel terzo millennio siano cambiate solo le rotte e le modalità.
“Există boschetari peste tot”, dicono i rumeni. Ancora oggi “ci sono senzatetto ovunque”.
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